“Essere testimoni è dare voce.

La voce è quella di Claudio, uno dei partecipanti al progetto “Caro Amico Ti Scrivo“, che da anni mette in contatto e relazione i Volontari della My Life Design O.D.V. e persone detenute in diversi istituti penali.

La voce di Claudio racconta con umiltà il suo personale percorso in carcere: entra a 19 anni, condannato a una pena senza fine, si diploma, si laurea, “perché lo studio è importantissimo, anche se non basta” e sceglie, nel suo progetto di dottorato, il tema della Giustizia Riparativa.

Quando l’ho saputo, una parte di me ha provato ammirazione per il suo coraggio… “…ho capito quanto potevo fare, seppur detenuto, per poter risarcire la società ed essere utile …”.

D’accordo con lui, che ne è felice, metto a disposizione di tutti il suo racconto su come sia possibile farsi testimone della responsabilità di dire si alla vita, di dare senso a ogni giorno, di evolvere nell’impegno costante di offrire un contributo, da dentro… perché l’onda della riparazione, della mediazione, dell’incontro e della bellezza si propaghi.

Questa lettera ha già trovato spazio e ascolto durante l’incontro di formazione per facilitatori e tutor di Liberi Dentro a cui ho il privilegio di partecipare: Claudio ci mostra che Liberi Dentro è davvero uno stato dell’Essere.

Qui, ora, le sue parole sono a disposizione di chi vorrà accogliere un’anima, aprire il cuore per guardare oltre ogni giudizio e comprendere come, “da dentro”, si possa elaborare l’essenza di una giustizia che ripara:

‘La Giustizia Riparativa si fonda su un atto libero e volontario di persone che loro malgrado si trovano “legate” da un brutto evento come quello di un reato o di un conflitto. Se questo “atto”, se questo “incontro” diventa un obbligo, c’è il rischio che si perda il senso, l’autenticità, l’empatia, la capacità di ascolto necessari affinchè sia un incontro che “ripari” entrambe le parti in causa. E’ nella libertà dell’incontro, come quello con la persona che mi ha chiesto questo scritto, che si trova la sua bellezza, quella “bellezza” che unisce, che genera cambiamento, che come diceva Fedor Dostoevskij, salverà il mondo.

GRAZIE”.

Manuela Russo – Volontaria attiva nell’Area Giustizia


Il testo integrale di Claudio:

“Nella mia vita ho incontrato diverse forme di giustizia. Ho incontrato la giustizia del “fai da te”, che mi ha condotto su strade che mai avrei immaginato e provocato danni irrimediabili; poi ho incontrato la Giustizia dello Stato, che mi ha condannato senza sconti a una pena senza fine.

Sulla mia pelle ho imparato che entrambe sono giustizie che distruggono, non riparano, non sono orientate al perdono, alla comprensione, all’amore predicato dal Vangelo, ma sono giustizie che rispondono alla “legge de taglione” della Bibbia, quelle di un Dio vendicativo, che abbiamo imparato a temere, ma che non ci ha tenuti lontano dal peccato.

Ne ho commessi molti peccati e reati, anche se avevo solo 18 anni di età. A 19 anni mi hanno arrestato e non sono più uscito. E forse non uscirò mai. Sto pagando per i miei delitti, mi dico. Sto soffrendo, è giusto, mi ripeto, come stanno soffrendo le persone a cui ho fatto del male, direttamente o indirettamente. Sapendomi in carcere per loro sarà un sollievo, penso.

La verità è che stare in carcere ti solleva da tante responsabilità morali. “Sto pagando” ti dici, quindi i “conti sono pari”, la “bilancia è in pareggio”, probabilmente ne terranno conto anche lassù. Almeno penso. Penso? Meglio dire, pensavo. La verità è che il carcere non basta, non serve né alla vittima, né all’autore di reato. L’ho scoperto col tempo.

Un giorno sentii parlare di Giustizia Riparativa, nella quale è previsto che vittima e autore di reato si incontrino e si confrontino con l’aiuto di una terza persona, un Mediatore. Lì per lì pensai che non fosse una buona idea.

In carcere mi sono laureato in Legge e la mia formazione giuridica oltre l’esperienza personale mi facevano guardare con sospetto all’idea di dare alla vittima un ruolo preminente nell'”amministrazione ” della giustizia (nell’attuale processo il suo ruolo è previsto nella sua possibile costituzione come parte civile); vedevo il rischio di uno scivolamento verso quegli ordinamenti giuridici islamici in cui sono i familiari delle vittime a decidere la pena per il condannato.

Pensavo alle garanzie del processo penale che in occidente siamo riusciti a conquistare nel corso dei secoli, a costi altissimi, e pensavo che quelle garanzie sarebbero state messe a rischio più di quanto già non lo siano.

Pensavo alle parole di un famoso giurista, Luigi Ferrajoli, riguardo al nostro sistema penale che garantisce sempre la “parte più debole” che è la vittima al momento del reato, l’imputato al momento del processo, il condannato al momento dell’esecuzione della condanna.

Pensavo che alla giustizia dovesse pensarci lo Stato, con giudici preparati e imparziali. Lo pensavo perché avevo visto come la “giustizia privata” aggiunga dolore a dolore e violenza a violenza. Motivo per cui guardavo con sospetto a una giustizia amministrata dai “privati” quali comunque restano vittima, autore del reato e mediatore.

Poi un giorno nella redazione giornalistica per detenuti di cui faccio parte, invitammo Fiammetta Borsellino; avevo letto che cercava la verità su suo padre, il giudice Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia in Sicilia nel 1992, dopo aver scoperto che quelli condannati erano degli innocenti. Pensavamo di poterle dare spazio, voce nel nostro piccolo giornale. Lei venne, raccontò la sua storia, il suo dolore, ma anche i valori e l’umanità di suo padre, che erano la grande eredità che aveva lasciato a lei e al Paese. Per me, quella storia siciliana fino a quel momento era stato solo un fatto di cronaca che non mi riguardava, ma dopo quell’incontro, divenne anche un po’ mia. Andò via soddisfatta dall’attenzione che aveva trovato.

Poi ho letto le testimonianze di altre vittime, di come non si sentissero risarcite dalla condanna al carcere, che serve più allo stato per riaffermare la sua supremazia per la violazione di una norma, ma che non fa giustizia, alimenta solo la “catena del male, non la spezza”, come dice Agnese Moro figlia del Presidente Aldo Moro, ucciso dalle BR negli anni ’70.

Ho letto di come molte persone volessero liberarsi dal ruolo di vittime in cui le ha intrappolate la società per pensare a un futuro diverso, trasformando il loro dolore in qualcosa di costruttivo.

Allora ho capito quanto la vittima abbia bisogno di essere ascoltata, di vedere riconosciuto il suo proprio dolore, di essere ri-considerata in quanto persona e non solo vittima.

E ho capito anche quanto potevo fare, seppur detenuto, per poter risarcire la società ed “essere utile anche io”, ho capito che la giustizia riparativa può svolgersi su altri piani, lontani e diversi da quello del processo, dell’inflizione ed esecuzione della pena; ho capito che non si trattava della giustizia del “taglione”, ma di quella più vicina al vangelo, della comprensione e dell’incontrarsi negli occhi dell’altro.

Ho scoperto anche che quella della mediazione è una forma di giustizia che può applicarsi a diversi ambiti, finanche ai conflitti tra condomini, o quelli nati a scuola tra studenti: una rivoluzione culturale, in poche parole, che dallo scontro passa al confronto.

Non tutti i miei dubbi sulla Giustizia Riparativa sono stati superati, c’è ancora troppa confusione e differenti visioni sulla stessa.

Per questo motivo ho pensato di inserire questo argomento nel progetto di ricerca per il mio dottorato (perché continuo a studiare, lo studio è importantissimo, anche se non basta): per contribuire a divulgare questo nuovo paradigma di giustizia, per delinearne pregi e limiti, per evitare strumentalizzazioni a danno delle vittime, dei detenuti o delle persone più fragili.

La Giustizia Riparativa si fonda su un atto libero e volontario di persone che loro malgrado si trovano “legate” da un brutto evento come quello di un reato o di un conflitto. Se questo “atto”, se questo “incontro” diventa un obbligo (come prevede la riforma dell’art.4-bis della legge penitenziaria), c’è il rischio che si perda il senso, l’autenticità, l’empatia, la capacità di ascolto necessari affinchè sia un incontro che “ripari” entrambe le parti in causa. E’ nella libertà dell’incontro, come quello con la persona che mi ha chiesto questo scritto, che si trova la sua bellezza, quella “bellezza” che unisce, che genera cambiamento, che come diceva Fedor Dostoevskij, “salverà il mondo”.

Claudio

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